Al giorno d’oggi non possiamo più ignorare aspetti dei nostri consumi che si ripercuotono negativamente sulla collettività. Certamente ci sono prodotti di cui possiamo fare a meno ma ce ne sono altri che, invece, sono fondamentali per il nostro benessere e che rientrano tra i bisogni primari dell’uomo: l’alimentazione.
Produrre cibo, effettivamente, provoca inquinamento ma ci sono modi e modi per farlo e, dunque, la responsabilità della salute del pianeta passa anche attraverso le nostre decisioni d’acquisto.
Le aziende, ovviamente, sono le prime responsabili del proprio operato ed è per questo che, in Europoll, abbiamo preso una posizione netta nei confronti della salute del Pianeta. In particolare oggi vogliamo condividere con chi ci legge una breve disamina sull’inquinamento causato dagli allevamenti e un chiarimento su quali pratiche permettono di ridurre gli effetti dannosi sull’ambiente.
Partiamo dai dati: quanto inquina la produzione di carne?
Secondo la FAO i consumi di carne, entro il 2050, sfioreranno cifre da capogiro, ossia 465 milioni di tonnellate in un anno in tutto il Globo. Anzi, a voler essere precisi, sappiamo che a partire dalla seconda metà del Novecento i consumi di carne sono quintuplicati. Questo ha spinto i mercati ad intensificare il numero di animali allevati, adottando anche pratiche dalle quali prendiamo le più generose distanze possibili.
La crescita “esplosiva” della popolazione animale domestica ha inciso notevolmente sulla salute del Pianeta e, soprattutto, sugli equilibri dell’ecosistema naturale. In particolare ci riferiamo all’uso di risorse alimentari, all’inquinamento delle acque, all’uso delle terre e, quindi, alla degradazione ambientale anche tramite le emissioni di gas serra.
Senza contare il fatto per cui certi allevamenti intensivi finiscono, in buona parte, al macero. Le attuali norme di vigilanza sono giustamente molto severe ma la sovra-produzione ed il mancato rispetto dei tempi biologici causa un fenomeno ulteriormente distruttivo, ovvero quello dello spreco alimentare.
Il quadro non è certamente roseo ma le nostre intenzioni, per l’appunto, sono quelle di sensibilizzare chi legge, soprattutto verso ciò che acquista quotidianamente e che decide di portare in tavola. Pertanto vorremmo anche scagliare una lancia in favore di allevamenti sostenibili, ovvero gestiti nel rispetto dell’ambiente e degli animali e, ovviamente, anche dei diretti consumatori.
Gli allevamenti di polli sono tra i più sostenibili
Quanto stiamo per affermare non è certamente un modo come un altro per “tirare acqua nel nostro mulino”. Il nostro approfondimento vuole porre l’accento sulla differenze di sostenibilità tra i vari allevamenti animali oggi esistenti e per i quali, ovviamente, ce ne sono alcuni più virtuosi di altri.
È questo il caso degli allevamenti di pollame, per lo meno quelli gestiti nel rispetto dei vigenti criteri di sicurezza ambientale. All’estremo opposto ci sono allevamenti altamente dannosi per l’ambiente, come ad esempio quello dei bovini che, com’è noto, immettono nell’atmosfera ingenti quantità di metano.
Non è un caso se il Ministro per il Clima in Nuova Zelanda, di recente, abbia affermato che, consapevole dei danni causati dagli allevamenti di bovini, il Paese si prepara ad una norma molto particolare. In pratica verranno tassate le flatulenze di bestiame a partire dal 2025 assieme all’introduzione di incentivi per ridurre le emissioni tramite diete speciali, piantamento di alberi a compensazione e risorse economiche per ricerca scientifica a sostegno delle aziende agricole. (Qui la notizia completa https://www.lifegate.it/nuova-zelanda-tassa-flatulenze-mucche-contro-inquinamento#:~:text=La%20conferma%20dalle%20Nazioni%20Unite,litri%20di%20metano%20al%20giorno.)
In ogni caso gli allevamenti di pollame sono più sostenibili, per almeno tre ragioni.
- Le flatulenze sono decisamente minori e, quindi, impattano meno sull’ambiente.
- Il ciclo di vita del pollame è inferiore per cui il degradamento ambientale ha un impatto ridotto rispetto alla redditività in termini di prodotto finito.
- L’utilizzo di mangimi naturali e di pratiche genuine, come l’allevamento a terra, garantisce un maggior controllo su tutto il ciclo di vita dell’animale.
La parola di Unaitalia sugli allevamenti avicoli
Il settore avicolo italiano, quello d’eccellenza, è caratterizzato da un modello di “filiera integrata unico al mondo”. I dati di settore ci dicono che le aziende come la nostra contribuiscono investendo almeno il 7% del fatturato totale in ricerca ed innovazione. Il dato è particolarmente interessante se lo confrontiamo con gli investimenti totali del settore agroalimentare che, pur essendo superiore alla media europea, è comunque pari al 2,5%.
Questo significa che il termine “intensivo” affiancato ad “allevamento” può essere considerato non sempre come una “minaccia”, quando il lavoro è svolto a dovere. Ecco perché possiamo affermare che i livelli di eccellenza sono decisamente rassicuranti ma, ovviamente, possiamo e dobbiamo fare di più. Soprattutto a fronte di una richiesta di carni avicole di qualità in continua crescita.
In Italia i costi di produzione sono tra i più alti al mondo e sono motivati da regole e standard produttivi molto severi. La concorrenza è altrettanto forte ma il mercato nostrano, equilibrato e sempre pronto ad accogliere nuove sfide di sostenibilità e qualità, ha tutte le carte in regola per competere ad alti livelli.
(Qui le dichiarazioni di Unaitalia https://www.carnisostenibili.it/una-doverosa-precisazione-sugli-allevamenti-avicoli/)